PALLADIO – MOZART La sintesi tra rinascimento romano e universo veneto

19 Marzo 2003

Conferenza dell’arch. Paola Ardizzola su Andrea Palladio: la sintesi tra Rinascimento romano e universo veneto. Presso Università G. D’Annunzio – Chieti.

 

 

Proiezione del film “Don Giovanni”: Conferenza sui luoghi palladiani, scenario della tragedia mozartiana

 

 

L’Ouverture del Don Giovanni inizia sugli ampi, solenni accordi, neri con barbagli di fuoco, della Punizione mediante la Morte. Accordi prolungati in cui dominano gli ottoni, simili – ma consonanti – a quelli che, dissonanti, sottolineeranno l’ingresso del Commendatore, il convitato di pietra, nella sala della cena funebre – allorchè, accettando l’insolente invito dell’erotico assassino, la Statua, uscita dal cimitero, verrà ad intimare il pentimento all’anima e poi a trascinarla via. Accordi «fortissimo» in re minore – la tonalità tragica di Mozart – su tonica e dominante, sollevati all’interno da un ritmo insistente e prolungati con accento dolente in un’ultima nota degli archi nel registro grave. Subito dopo si leva dal quartetto un elemento scandito, ostinato, implacabile – un impulso lungo seguito da uno breve – che sembra imporre il movimento di un Passo, dell’avanzata verso una méta. Sovrastando questo ritmo si diffonde una successione discendente di toniche e dominanti maestose – espressa dai legni, cui vengono ad aggiungersi gli ottoni – che traccia lo schema di quello che più avanti sarà il primo appello della Statua: “Don Giovanni!”. E tutto ciò introduce al gemito, al lamento, al pianto infantile della creatura gettata nel mondo del dolore: una breve frase sincopata dei violini, di quattro sole battute, ma che sembra coprire tutta la durata del nostro essere. E’ lo stesso gemito che più avanti salirà immediato dall’anima di Don Giovanni in risposta all’appello della Statua. Il gemito, a sua volta, dà origine a larghi movimenti intrisi di lacrime, che grondano sull’intera orchestra per arrestarsi davanti a nuovi accordi possenti, posti qui come frontiere del Destino; infine sopraggiungono le scale ascendenti e discendenti, le scale caratteristiche dell’Ouverture del Don Giovanni, che si dilatano per poi afflosciarsi bruscamente, e salgono per semitoni o toni interi, su armonie mutevoli; scale della disperazione, saranno le armi del commendatore nella sua missione punitiva, e già preannunciano lo spalancarsi dell’inferno. L’opera che inizia è una cruda tragedia. Ma appena ne siamo compresi e impressionati già muta completamente lo spirito: ecco irrompere all’improvviso, brillante e terso, uno spensierato uragano di desiderio, la vita lanciata all’inseguimento. La catena ininterrotta del sentimento con i suoi guizzi, lo stimolo continuo e gioioso della carne, l’allegria, la giovinezza e la sfida: cose umane talmente sfavillanti che il peccato, un attimo prima incombente e oppressivo, diventa improbabile ed irreale. Don Giovanni – peccatore senza peccato – ha iniziato la sua corsa; lo scortano splendidi volti di vivezza sonora, oggetti del suo desiderio; e la nostra simpatia è tutta per lui. Lo sviluppo rigoroso e perfetto della Musica ci incatena a Don Giovanni, ci ammalia con delizie sempre nuove, accumula i conflitti senza risolverli, mette a tacere i nostri timori – sino ad arrivare piano piano al finale, appagante, prodigiosamente dolce e toccante: un sospiro. Fin dalla sua prima espressione orchestrale, questa Musica dà quindi l’impressione di un irrompere; è nata con il potere di sedurre e di soggiogare. Ci sentiamo pervasi e trascinati dalla sua forza, carica di una straordinaria tensione che per tutto il primo atto non si allenterà neanche un attimo, ed è destinata ad aumentare via via che si procede verso il cupo finale dell’opera. Una simile tensione quasi travalica l’umano; perciò non cesserà di procurarci piacere e angoscia insieme. Se in certi momenti è paragonabile alla misteriosa concitazione del delirio, in altri può essere vista come la potenza naturale del fiotto di sangue che sgorga da un petto -ammesso che il sangue possa sgorgare da un petto lasciandolo intatto. Soffermiamoci ancora un po’ su questa seconda immagine, perché l’intera opera è incentrata su una vita fin troppo ricca e desiderosa di vivere e di morire. Ed è proprio qui che rivela l’animo di Mozart. Le gioie e le pene non possono rimanere inerti: Don Giovanni non ha tregua; l’amore non ha limiti; la felicità e il dolore non avranno né risoluzione né termine, se non in Don Giovanni stesso e nella sua esistenza. Ecco dunque tutto lo sfavillìo su Don Giovanni e sulle sue gesta, tutta la cupezza sul resto. Una cupezza talmente profonda e presaga della fine da avvolgerci nelle sue spire; eppure mai ci abbandona un senso di tenerezza; così come l’ironia ci trattiene sempre dal disperare: giacchè è sotto un manto di gaiezza che ogni nota esprime la più nuda verità. In quest’opera ispirata, l’istinto può giungere ad una tale Isteria – nel senso sacro del termine – a una tale varietà di ebbrezze e annullamenti, di positività suprema e di negatività assoluta, che siamo costretti (noi che abbiamo le sue stesse inclinazioni) a saltare insieme con lui da una sfera all’altra, anche noi, come lui, senza tregua. Ci stiamo avventurando nei bui recessi dell’uomo, e tuttavia non lasceremo mai la cornice intensamente dorata della perfetta bellezza chiarificata e delucidata.

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