UNA REINVENZIONE DEL MONDO Mostra personale di Maria Cristina Crespo

7 - 15 Giugno 1991

Maria Cristina Crespo è quello che suoI dirsi artisticamente un “temperamento” con le sue impennate, con i suoi umori, con i suoi momenti di illuminazione intuitiva, tutto ciò costituisce il nocciolo dei suoi modi espressivi che, volendo, potremmo inquadrare nella sfera del dionisiaco. Il problema è quello di dare una base, un supporto tecnico al temperamento per far si che esso si esprima significativamente. Un temperamento iscritto nel perimetro del mestiere crea l’artista professionista: la poesia si fa con le parole che formano i versi, costruiti sempre secondo un ordine preciso per quanto liberi possano essere; ciò determina nella pagina scritta quella “petite musique” di cui parla Céline, quella piccola musica che pochi riescono ad ottenere. Naturalmente il professionista sa che il mestiere non va strangolato dal tecnicismo, sa che esso si modifica e si evolve continuamente in una metamorfosi incessante: questo era il segreto degli antichi, della loro grande arte. Recentemente molte parrucche accademiche di avanguardia e di retroguardia sono rimaste allibite davanti al Michelangelo della Sistina scoperto nella sua realtà coloristica dai restauri in corso; questi professori lo avevano forse relegato nel mondo del monocromo: era ovvio, era uno scultore! Magari avrebbero anche voluto che il suo chiaroscuro fosse tutto disegnato con un tratto a 45 gradi. Si erano semplicemente scordati che era Michelangelo, cioè un grande artista che, conoscendo a perfezione ogni regola, aveva la possibilità e la libertà di reinventarla di sana pianta. Non parliamo poi della sorte di un altro straordinario pittore creduto per secoli il paladino delle Accademie, Guido Reni. Ma Guido era uno che, con la scusa di dipingere santini faceva in pittura dello sperimentalismo puro: ma vaglielo a far capire ai nostri professori, hanno le meningi spesse come la pelle dei rinoceronti. Quando Cristina, diversi anni fa, venne a trovarmi nel mio studio, mi portò a far vedere certi suoi lavori; alcuni disegni e una testa modellata in cartapesta dipinta. Il temperamento, il talento erano evidenti, però come balbettati attraverso una forma piena di incongruenze, di contraddizioni. Erano ancora nell’ambito del dilettantismo: intelligente, sensibile, pieno di fermenti ma pur sempre dilettantismo. Dissi subito a Cristina, che mi era risultata immediatamente simpatica (nello stabilire un rapporto non posso prescindere dai miei umori) che non potevo insegnarle niente perché nel nostro mestiere non si insegna niente, ma si impara molto e che, se voleva venire nel mio studio, era padrona di farlo e forse, chissà, le avrei anche detto cose che altri non le avrebbero saputo dire e, se fosse stata d’accordo, le avrei anche fatto fare cose che le avrebbero dimostrato la sua precisa vocazione. Cristina ha disegnato per quattro lunghi anni nel mio studio, superando giorno dopo giorno prove durissime: ha disegnato e ridisegnato, cercando soprattutto di penetrare il mistero del disegno che rappresenta l’ossatura di ogni linguaggio plastico. Spesso ho volutamente provocato Cristina, a volte anche con una punta di “carognaggine”: questo l’ho fatto per tirarle fuori la verità, perché questo mestiere si basa sul gioco della verità: verità che significa assenza totale di vanità: strappa da te la vanità, ti dico strappala ammonisce il vecchio zio Ezra che, nel bene e nel male, se ne intendeva perché era della pasta degli Alighieri, dei Villon, dei Rimbaud. Ora Cristina disegna bene, anzi direi molto bene, sa soprattutto cosa è un disegno e cosa deve scaturire da un disegno; il suo estro è ora libero di estrinsecarsi come vuole, qualunque cosa inventerà (e Cristina ne inventa di tutti i colori) sarà sempre sostenuta da una cultura “posseduta” che può essere modificata, piegata appunto a quelle esigenze creative che nascono dalla sua intuizione. Ma parliamo ora dei suoi “pupazzi vestiti” che sono l’argomento di questa mostra. La definizione non tragga in inganno, queste sue sono straordinarie invenzioni plastiche dove la tridimensionalità della scultura si sposa al colore, alla composizione sapiente e dove il disegno  serpeggia vivo nei canali d’ombra dei panneggi, costruendo lo spazio; la sua personalità visionaria ormai si organizza spontaneamente con metodo direi teutonico, con una conseguenzialità che sembra uscita fuori dal secolo dei lumi. Gli stimoli più impensati, le fonti più nascoste trovano una loro ragione d’essere, un loro ordine preciso: Cristina raccoglie stracci bottoni bigiotterie da quattro soldi, pezzi di vecchie cornici dozzinali la carta stagnola dei cioccolatini; modella con il gesso teste inventate di Re e di Regine di sante e di prostitute poi fa scattare il tutto nella dimensione magica e precisa dell’analogia: in quei volti tatuati, in quegli straccetti di tarlatana azzurra messi al posto delle nuvole, in quei frammenti di cornici di accatto che fanno da stipiti a iscatolati teatrini più o meno sepolcrali, l’evocazione si fa tangibile e potente e le citazioni storiche religiose popolari, vive. Tutto è pretesto per innescare, come accade ai veri artisti, una re invenzione del mondo dove l’individualità dei personaggi e il carattere degli elementi compositivi, ora protervi ora attoniti ora convulsi, sono filtrati e ridati attraverso un tipo di immaginario che tutti li lega in una sorta di girotongo collettivo, in un fantasmagorico balletto surreale. Questa stralunata fiera delle vanità avanza a passo di danza: vi serpeggia un humor nero e dissacrante che associa lazzo e preghiera, sensualità e religiosità, il colore delle carni imbellettate delle cortigiane e i pallori mistici delle sante degli “svenimenti umbri” tutto il mondo che Cristina crea con le sue stupende cianfrusaglie viene percorso da un fremito di vita e nel contempo da un sussulto di morte, illuminazione di un attimo prima di riprecipitare nella opacità della loro oggettiva realtà. Così Cristina, da autentica artista moderna, percorre gli archi vasti del tempo e della storia, quella storia dell’arte da lei studiata con rigore scientifico diviene una sua particolare storia dell’arte. Va anche detto che in Cristina il gusto del kitsch è determinante: come un’ acrobata consumata avanza in equilibrio sul filo che fa da spartiacque tra il buon gusto e il cattivo gusto ma spesso anche questa è una prerogativa dei grandi artisti: infatti chi può dire dove inizia o finisce sublimandosi il kitsch di Rubens, di Bernini o di Verdi? però che grande pittura che grande scultura che grande musica! Forse si potrebbe parlare ancora a lungo di quello che Cristina va facendo o, potenzialmente, di quello che potrà fare ma ciò andrebbe a detrimento delle opere esposte in questa mostra; penso sia stato sufficiente aver messo sull’avviso chi avrà la fortuna di osservarle; di fatto queste opere parlano da sole, non hanno bisogno i commenti arzigogolati, parlano naturalmente a chi sa udire a chi sa vedere; i loro colori, i loro atteggiamenti, i loro bisbigli, le loro grida, le loro risate, i loro gemiti, le loro preghiere entrano di diritto a far parte di quell’umano miracolo, piccolo o grande, che si chiama poesia.

Angelo Canevari

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